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La fortuna dei Medici. Come sono diventati i Signori di Firenze

I Medici furono una delle famiglie più ricche e importanti di Firenze, tra Medioevo e Rinascimento. Ma come arrivarono a essere Signori di uno degli stati italiani più potenti e, per di più, uno stato repubblicano?

Se dovessimo riassumere la parabola di questa famiglia, dovremmo iniziare dalla loro banca che venne aperta nel 1397, dal bisnonno di Lorenzo il Magnifico, Giovanni di Bicci de’ Medici (insieme a due soci), e crollò nel 1494. Un semplice tavolo coperto da un panno verde, attorniato da sacchi di monete, che divideva due persone impegnate in una transazione, situato in via Porta Rossa a Firenze, nella zona di Orsanmichele. A quel tavolo, si susseguirono cinque generazioni. La famiglia vide un’incredibile ascesa economica e politica grazie ai primi due amministratori della banca, ossia Giovanni di Bicci e suo figlio Cosimo, il quale la portò al massimo livello di espansione e si addentrò in politica. Poi ci fu un periodo di transizione sotto la guida di Piero il Gottoso, figlio di Cosimo, costretto a letto dalla malattia, per arrivare a venticinque anni di supremazia politica grazie a Lorenzo il Magnifico, basata però su un patrimonio che andava dissolvendosi. E, infine, il crollo improvviso dovuto all’incapacità del figlio di quest’ultimo, Piero il Fauto.

I Medici e la loro banca arrivarono dopo una serie di tumulti a Firenze e dopo la peste che aveva annientato un terzo della popolazione e crebbero in una breve parentesi di tranquillità nel periodo di transizione dal Medioevo all’età moderna. Ma il lavoro del banchiere, all’epoca, non era facile perché il prestito di denaro era considerato usura dalla Chiesa, un peccato che poteva essere espiato solo con il totale risarcimento di quando guadagnato. Ma perché usura? I tassi di interesse che la banca guadagnava in cambio del prestito facevano del denaro non più un oggetto di metallo usato come mezzo di scambio, ma qualcosa che si moltiplicava nel tempo senza alcuno sforzo, arricchendo i banchieri, in modo difficilmente quantificabile. Per la Chiesa era una situazione difficile da gestire, tanto che la definì contro natura. Quindi? Come fare questo mestiere e arricchire la famiglia senza chiedere direttamente un interesse? Senza andare contro la Chiesa di Dio? Grazie all’arte del cambio. In pratica, un mercante si presentava al loro banco chiedendo una somma di denaro in fiorini (sui quali la banca non poteva chiedere, in teoria, un interesse) e proponendo, come compenso, di ripagare il prestito in un’altra città, con un’altra valuta. Il banchiere sborsava i fiorini e preparava una cambiale con la quale si ordinava di pagare quella somma in valuta locale, indicando anche quanto valeva, in quel momento, un fiorino in quella valuta (ad esempio, nel 1417, un fiorino valeva 40 sterline a Londra). Al giorno stabilito sulla cambiale, che equivaleva al tempo che si impiegava per andare da Firenze alla città indicata, il corrispondente della banca riscuoteva dal cliente la somma nella valuta locale, al tasso segnalato nella cambiale. Dove guadagnava la banca in questa operazione? Speculando sulle fluttuazioni del tasso di cambio, sperando che, al momento di cambiare la valuta straniera in fiorini, il loro valore fosse maggiore della somma prestata. Questa era la versione ufficiale. Nella realtà, una volta che il cliente aveva restituito il prestito, il corrispondente della banca cercava un cliente locale che avesse bisogno di un prestito di pari importo e che si impegnasse a restituirlo in fiorini. Veniva compilata una nuova cambiale con un diverso tasso di cambio, maggiore, perché, in loco, la valuta locale valeva di più. Pertanto, una volta tornata a Firenze la somma iniziale, la banca guadagnava la differenza tra il tasso di cambio della valuta straniera indicato nella prima cambiale e quello successivo. Ecco, come la banca poteva arricchirsi senza essere tacciata di usura.

Proviamo a dare qualche numero per capire l’entità dei guadagni della banca Medici. Giovanni de’ Bicci, al momento della costituzione, mise nella banca 5.500 fiorini. Quando, nel 1420, si ritirò dagli affari, facendo subentrare il figlio Cosimo, la banca aveva guadagnato 152.820 fiorini (6.644 all’anno), tre quarti dei quali spettarono a lui. Nei quindici anni successivi, la banca guadagnò 290.791 fiorini (19.386 all’anno). Per dare un’idea di quanto valessero queste cifre, pensate che con mille fiorini si poteva costruire un bel palazzo; con trentacinque fiorini si pagava l’affitto di un anno di un piccolo appartamento con giardino. La maggior parte della popolazione non poteva permettersi di pagare in tasse nemmeno un fiorino.

La banca Medici, bisogna dirlo, non era di certo la prima banca nata a Firenze, né era l’unica. Anzi, come banchieri i Medici arrivarono dopo una serie di importanti innovazioni nella finanza, come l’invenzione della partita doppia, della cambiale, della lettera di credito e del deposito in conto corrente. E, a Firenze, in quel periodo vi erano settanta banche, alcune più importanti di quella Medici, come quella dei Peruzzi o dei Bardi che, tra XIII e XIV secolo, avevano accumulato fortune che i Medici non raggiunsero mai. Eppure, all’avvento della banca Medici, entrambe erano fallite a causa di crediti inesigibili nei confronti di sovrani stranieri: nella loro struttura, la sede centrale e le filiali erano una cosa sola, non avevano distinzione giuridica, pertanto, se una filiale crollava, il fallimento si ripercuoteva anche sulla banca centrale. Come riuscirono i Medici a non incorrere in questo errore? Giovanni de’ Bicci apportò una modifica strutturale: ogni filiale divenne un’azienda a sé stante, i cui soci erano il direttore della filiale e la banca Medici, intesa come una società controllante separata dalla filiale di Firenze, con sede in un ufficio. Non erano mai né la famiglia Medici, però, né la filiale fiorentina, potendo così introdurre un ampio numero di investitori senza che la famiglia perdesse mai il controllo dell’insieme e delle parti. La scelta del personale era fondamentale. Servivano persone determinate, ma astute e oneste, perché ogni filiale faceva parte della banca, ma era anche in concorrenza con le altre sedi. Le regole erano imposte dalla banca centrale, così come decideva degli stipendi di tutti, le cui entità restavano segrete per non creare risentimenti. Ricordiamo alcune norme stabilite: non prestare mai più di trecento fiorini ai cardinali, non più di duecento ai cortigiani, non fare credito ai mercanti romani perché non potevano restituirli, né ai baroni feudali perché facevano sempre come volevano, e nemmeno ai tedeschi. Un’altra importante mossa di Giovanni de’ Bicci per la ricchezza della banca fu quella di gestire il denaro del papa: da papa Giovanni XIII (nel 1410), al secolo Baldassarre Cossa, e fino a quando Sisto IV preferì i Pazzi (nel 1470), i Medici furono i banchieri del papa. Oltre il cinquanta per cento dei profitti della banca veniva proprio da Roma.

Se Giovanni si era dedicato agli affari, il figlio Cosimo, invece, riuscì abilmente a destreggiarsi tra finanza, politica e mecenatismo. Fece prosperare la banca, aprendo anche nuove filiali, governò Firenze pur rimanendo un normale cittadino e fece fiorire l’arte, commissionando opere come la cupola di Santa Maria del Fiore e il convento di San Marco e supportando artisti come Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, Filippo Lippi. In ambito finanziario, Cosimo riuscì a sfruttare le svariate guerre europee a vantaggio della banca. Gli Stati avevano, infatti, bisogno di grandi somme di denaro per assoldare le milizie mercenarie. La filiale di Roma riscuoteva i tributi ecclesiastici, quella di Venezia si arricchiva grazie alle operazioni di cambio lungo le maggiori rotte commerciali. Usò la banca anche in campo politico, quando aprì la filiale di Ancona al solo scopo di legare a sé il condottiero Francesco Sforza: prestandogli denaro lo legò al punto che, quando Firenze affrontò Milano nella battaglia di Anghiari, egli non intervenne, come invece avrebbe dovuto fare, permettendo a Firenze di avere la meglio. Inoltre, Cosimo prosciugò le casse della filiale fiorentina per prestare denaro alla Signoria, ridotta in ginocchio dagli sforzi bellici di quegli anni, garantendo così pace e ricchezza alla città per molti anni. Rientrato dall’esilio, a cui era stato costretto dalle famiglie che avevano maggior peso nella Signoria, come gli Albizzi, che lo accusavano di aspirare alla dittatura, Cosimo trovò il modo di avere sempre degli uomini a lui devoti nel governo di Firenze: grazie agli accoppiatori (coloro che accoppiavano i nomi giusti con le borse giuste, ossia con le cariche adatte), all’interno delle borse da cui erano estratti i nomi dei priori, da quel momento, ci sarebbero sempre stati dieci nomi di persone legate al Medici. All’apparenza, Firenze era rimasta una vera repubblica, con un meccanismo di scelta dei priori articolato e segreto; nella pratica, invece, tutto era deciso da un gruppo di fedeli a Cosimo e ogni decisione della città richiedeva il benestare dei Medici. Cosimo de’ Medici sapeva legare a sé le persone dando dei contentini, importava l’appoggio degli umili. Era amato. E la sua banca arrivò ad avere dieci filiali in Europa. Oltre a Firenze, vi erano Roma, Ancona, Venezia, Bruges, Milano, Avignone, Lione, Londra, Pisa e Ginevra.

Nella conduzione della banca, nel 1464, gli successe il figlio Piero, detto il Gottoso. La trovò, però, sottocapitalizzata e piena di crediti inesigibili. Ne chiese la restituzione, scontentando il popolo, dato che molte aziende fallirono per pagare i debiti alla banca. Al contrario del padre che prestava cifre che non potevano essere restituite nemmeno da signori come lo Sforza, Piero fu più cauto, tanto che rifiutò persino un prestito agli eredi di Francesco Sforza. Tuttavia, una serie di incauti prestiti e di mancate restituzioni comportarono la chiusura progressiva di alcune filiali e la banca iniziò la sua parabola discendente. In campo politico, invece, Piero mantenne il comando del governo, scontrandosi però con la Signoria sul metodo di elezione dei priori e, indebolendo il consenso verso la famiglia.

Intanto, il primo figlio maschio di Piero, Lorenzo, iniziò la sua carriera diplomatica col botto: a soli diciassette anni firmò l’importante contratto sulla compravendita dell’allume della Tolfa, uno dei prodotti più importanti dell’epoca perché usato in diverse fabbricazioni, come il fissaggio del colore sui tessuti. In accordo con papa Paolo II, Lorenzo ottenne il monopolio della vendita del minerale, supportato dalla minaccia di scomunica per coloro che avrebbero comprato l’allume dai Turchi, invece che dai Medici. Nel 1469, Piero morì e Lorenzo assunse le redini della banca e della città, ma senza occuparsi mai davvero degli affari: la sua attenzione era concentrata sul governo e sulle arti. Tutto filò abbastanza liscio fino al 1478, quando una congiura (congiura dei Pazzi) attentò alla sua vita e uccise suo fratello Giuliano, creando una frattura insanabile con papa Sisto IV (che aveva avallato la congiura). Gli anni successivi furono molto difficili per il Magnifico: non era più il banchiere del papa (che gli aveva preferito i Pazzi), le casse della sua banca si erano svuotate e su di lui e su Firenze gravava la scomunica di Sisto per aver fatto giustiziare l’arcivescovo Salviati (implicato nella congiura ai suoi danni). Lorenzo iniziò, così, una guerra di propaganda contro il papa, ma le filiali della banca non producevano più utili e anche quelle più importanti come Milano e Bruges chiusero i battenti. Che fare? Si appropriò, senza autorizzazione, del denaro della casse pubbliche di Firenze, arrivando a defraudare il Monte della Dote, ente caritatevole che si occupava di fornire una dote alle ragazze in età da marito la cui famiglia non poteva permettersela.

La fine della banca si stava avvicinando e arrivò due anni dopo la morte del Magnifico e sotto la guida del figlio Piero, detto il Fauto, anche causa dell’azione distruttiva di Girolamo Savonarola. Piero, politicamente incapace, cedette alla pressione politica di Carlo VIII di Francia e all’insolvenza della banca, le cui filiali vennero dichiarate fallite.

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